MELANESIA
Inferno e Paradiso in mezzo al Pacifico
Dei quattro Stati Sovrani della Melanesia, la Repubblica di Fiji è il più famoso, il più visitato e -probabilmente per questo motivo- quello che mi ha affascinato meno.
Ma anche solo per ammirare l'atterraggio su Nadi dal finestrino del (vecchio) Airbus A330 della compagnia di bandiera del Paese, dopo dieci ore di volo da Singapore, è valsa la pena andarci. Naturalmente sono ben altri e più validi i motivi, a cominciare dalla bellezza dei panorami, un mare cristallino e la gentilezza degli abitanti.
Una parola si sente in continuazione alle Fiji, ripetuta ossessivamente da tutti, a tutte le ore, e presto coinvolge anche me:
Bula!
E' l'equivalente del nostro ciao, accompagnato da un sorriso trascinante.
Da qualche parte mi pare di aver letto che quella delle Fiji sia la popolazione più felice della terra. Bastano tre giorni per capire che ci sono valide ragioni perché ciò sia vero.
Troppo breve il mio soggiorno a Viti Levu, l'isola più grande dove sorgono le due principali città, Suva -la Capitale- e Nadi -sede dell'Aeroporto principale del Paese- dove sono atterrato, ma la meta erano Vanuatu e Solomon Islands. Comunque, un'idea me la sono fatta, e mi potrebbe anche bastare,
Considerato il poco tempo a disposizione ho preferito prendere un auto a noleggio, preferendo un operatore locale, con la quale ho percorso, in totale relax, e senza inconvenienti, parte del perimetro della costa prima di lanciarmi in sentieri meno battuti.
Il venerdì le lezioni durano mezza giornata e il pomeriggio è dedicato all'attività fisica; ho giocato a calcio con i ragazzini di una scuola elementare ma il loro sport, ovvio, è il rugby.
E mi hanno dedicato una splendida danza Haka!
Malekula è la seconda più grande isola dell'arcipealgo di Vanuatu, ci vivono circa 30.000 abitanti. Il capoluogo è Lakatoro, che si trova sulla costa nord orientale.
Dopo il tramonto è tutto chiuso a Malekula, a parte qualche baracca privata in cui si riuniscono per bere Kava. Ed è buio pesto. Indispensabile una pila, almeno quella del telefono, per camminare. L'unico posto dove è radunata gente è il Malampa Market di Lakatoro, un mercato esclusivamente ortofrutticolo in cui i contadini arrivano periodicamente dai villaggi con i prodotti dei loro campi e restano tutto il tempo necessario, dormendo per terra, per vendere tutto.
Una sera raccontata con passione da un'anziana donna, ascoltavo con interesse e curiosità la leggenda, tramandata di generazione in generazione, secondo la quale, in giorni molto lontani dai nostri, gli abitanti di quell'isola vivevano per sempre. Semplicemente cambiando pelle, come fanno serpenti e granchi.
Poi la morte arrivò anche lì.
Una mattina un uomo chiamato Malkau andò a raccogliere yam, un tubero che cresce da quelle parti, chiedendo a sua madre di prendersi cura del suo unico figlio, un bambino molto piccolo.
Ma era, quello, proprio il giorno in cui la donna, brutta e molto anziana di nome Lemets, cambiava la sua pelle per tornare giovane. Lasciò per qualche minuto il bimbo solo nella capanna ed uscì per procedere alla trasformazione; rientrata, giovane e bella, prese in braccio il bimbo che però non la riconobbe e, terrorizzato, iniziò a piangere, urlare, scalciare.
La scena angosciò la donna al punto di temere il peggio per il piccolo e allora decise di uscire dalla capanna per riprendere la sua vecchia sembianza. A quel punto, tornò dal bimbo che, stavolta, riconobbe la nonna. E smise di piangere.
Da quel giorno in poi, per non spaventare i bambini, a nessuno più è concesso cambiare pelle. E, come a tutti gli altri essere umani, anche agli abitanti di Malekula, da quella volta, prima o poi, tocca morire.
Poi la morte arrivò anche lì.
Una mattina un uomo chiamato Malkau andò a raccogliere yam, un tubero che cresce da quelle parti, chiedendo a sua madre di prendersi cura del suo unico figlio, un bambino molto piccolo.
Ma era, quello, proprio il giorno in cui la donna, brutta e molto anziana di nome Lemets, cambiava la sua pelle per tornare giovane. Lasciò per qualche minuto il bimbo solo nella capanna ed uscì per procedere alla trasformazione; rientrata, giovane e bella, prese in braccio il bimbo che però non la riconobbe e, terrorizzato, iniziò a piangere, urlare, scalciare.
La scena angosciò la donna al punto di temere il peggio per il piccolo e allora decise di uscire dalla capanna per riprendere la sua vecchia sembianza. A quel punto, tornò dal bimbo che, stavolta, riconobbe la nonna. E smise di piangere.
Da quel giorno in poi, per non spaventare i bambini, a nessuno più è concesso cambiare pelle. E, come a tutti gli altri essere umani, anche agli abitanti di Malekula, da quella volta, prima o poi, tocca morire.
Bianco: "Capita spesso uno tsunami a Vanuatu?"
Vanuatese: "Ogni due anni, in media"
B.:"Meno male che ci sono ci sono questi cartelli, vi indicano come comportarvi"
V.:"Questi cartelli non li abbiamo mai letti (roba australiana o neozelandese n.d.r.) da uno tsunami sappiamo benissimo difenderci da soli"
B.:"..."
Vanuatese: "Ogni due anni, in media"
B.:"Meno male che ci sono ci sono questi cartelli, vi indicano come comportarvi"
V.:"Questi cartelli non li abbiamo mai letti (roba australiana o neozelandese n.d.r.) da uno tsunami sappiamo benissimo difenderci da soli"
B.:"..."
Seicentomila, tanti gli abitanti delle Isole Solomone, uno dei quattro Stati sovrani della Melanesia costituito da poco meno di mille isole, situato ad est di Papua New Guinea,
a nord ovest di Vanuatu e a nord est dell'Australia.
I solomoniani vivono in baracche, si nutrono di pesce e frutta e passano gran parte del loro tempo a masticare le disgustose betel nut; se dipendesse da loro vivrebbero come tre o trenta secoli fa e, probabilmente, ci sarebbe ancora il cannibalismo.
E allora i ricchi e sviluppati Paesi del "primo mondo", in testa la civilissima Australia, li depredano delle risorse, dando loro poco in cambio.
Ad ottobre 2018 la mia terza volta in Melanesia, la seconda alle Solomone. Adesso inizio ad avere un'idea abbastanza chiara di Guadalcanal, l'isola più grande e più importante del Paese, su cui si trova la Capitale Honiara.
Non è un Paese adatto ai turisti e anche di viaggiatori se ne vedono pochi. Dunque è un posto molto interessante per i pochi che ci arrivano, nonostante le tante difficoltà che s'incontrano, a cominciare dal prezzo degli alloggi.
Vengo a sapere che a Tetere , un villaggio a 30 km ad est dalla Capitale, c'è un ospedale costruito da italiani e, accanto, una "Casa Don Bosco".
Sarà quella una delle mie escursioni.
Così, un buon mattino, dopo il solito giro ad Henderson , il quartiere in cui avevo trovato casa e al meraviglioso mercato di fronte all'aeroporto, cerco un mezzo pubblico per Tetere. Che trovo senza particolari patemi
L'ospedale c'è davvero; è una struttura dignitosa che si sviluppa su un solo piano e su una superficie molto ampia, ma che, ovviamente, niente ha a che vedere con una occidentale.
"Comanda" una suora peruviana molto attiva e altrettanto loquace, che conosce anche l'italiano per aver vissuto dieci anni nel Bel Paese. Vorrei chiederle tante cose, ma non può dedicarmi tempo; le emergenze si susseguono. Un anziano uomo in barella, una ragazza con il volto sanguinante; brividi percorrono la mia schiena nel vedere un padre con il suo bimbo sudato tra le braccia, tremante e in crisi respiratoria: è malaria .
Il prete della casa "Don Bosco" attigua al nosocomio, don Angelo, è nativo di Reggio Emilia e da 30 anni opera nel Pacifico. La struttura è moderna, con scuole e dormitori per studenti. Enormi spazi aperti, un campo di calcio in perfette condizioni, uno di basket nel quale mi cimenterò nella mia solita, impeccabile, esibizione nel tiro da tre: 100% (di tiri sbagliati).
Il prelato è una considerevole fonte di informazioni; mi racconta molte cose riguardo lo stile di vita dei solomoniani e mi rassicura circa il rischio malarico:
"Tranquillo qui la malattia ha effetti quasi mai mortali".
Quel quasi mi inquieterà un pomeriggio intero...
Durante il tragitto mi avevano colpito le lunghe distese di piantagioni di palme, visibili a partire da un certo punto del percorso verso Tetere.
Avevo provato a chiedere all'autista del bus su cui viaggiavo chi fosse il proprietario di quella coltivazioni, senza risultato.
Nemmeno Don Angelo mi saprà dare risposte, ma io lo voglio sapere.
E così il mattino seguente sono di nuovo in viaggio verso Tetere. L'autista del bus mi racconta che a GiBBOL2 -un villaggio in mezzo alla foresta 3,5 km oltre Tetere- c'è un impianto da cui si ricava olio da queste palme e che il mezzo è proprio in quel villaggio che farà capolinea.
Molto interessante. Ma intanto mi faccio lasciare in mezzo alle piantagioni di palme, impressionanti per vastità, anche in larghezza; in alcuni punti, a perdita d'occhio.
I proprietari non sono locali, ma principalmente australiani e malesiani, così mi dicono i contadini che incontro, gentilissimi e disponibili al dialogo, come del resto sono tutti i melanesiani. Mi raccontano che dove ora ci sono le palme, una volta c'erano risaie e i ricchi stranieri sono riusciti, con pochi soldi, a convincere facilmente i poveri e sprovveduti indigeni che coltivare palme da olio sia più vantaggioso del riso.
"Più vantaggioso, per chi?" -chiedo, retoricamente-
"Per tutti e due" -mi risponde uno- Mazziati e cornuti.
Le terre, ad onor del vero, restano di proprietà dei solomoniani e da esse ricavano (misere) royalties da chi gestisce le piantagioni. Almeno questo.
"E quindi il riso è scomparso dalla vostra dieta?"-chiedo-
Ride: "No, lo compriamo"
Riso cinese importato da aziende australiane...
Ricapitolando:
i solomoniani avevano le risaie; i bianchi le hanno sostituite con le coltivazioni di palme, da cui ricavano materia prima per le loro industrie alimentari. In cambio di quattro spiccioli. Che si riprendono vendendo loro riso cinese.
Non è fantastico?
***
Non resta che andare a vedere l'impianto da cui si ricava l'olio. Dura poco l'attesa di un mini bus per percorrere i pochi i km che restano e dopo aver transitato nuovamente davanti all'ospedale "italiano" giungo a GiBBOL2 , un grazioso villaggio, ben organizzato, relativamente pulito. Di capanne.
Al piccolo mercato, ben fornito di frutta e verdura, mi fermo per una breve sosta consumando la prima tranche della quotidiana razione di ananas e noce di cocco. Meraviglia.
Lo stabilimento si trova nell' immediata periferia a nord della città: una struttura grande, ma non invadente. Non so se e quanto inquini, ma almeno non è un "mostro". Provo ad avvicinarmi, ma prima di riuscire a scattare foto qualcuno mi suggerisce, con tono inequivocabile, di non farne e, anzi, di allontanarmi rapidamente.
Non serve farmelo ripetere e allora mi accontenterò di passeggiare nel paesello percependo diffidenza, senza tuttavia incorrere in ulteriori minacce o fastidi. I bambini giocano a bocce con pietre e tappi di bottiglie e adorano essere fotografati. Gli adulti pure.
Tutti, direttamente o meno, lavorano in/per quella fabbrica; quanto sia il loro salario non sono riuscito a saperlo. Ma le condizioni di vita nel villaggio consentono di trarre ovvia conclusione: pochi spiccioli.
***
"Ma l'olio ricavato dalle palme che fine fa?". Prende la via della Malesia e dell'Australasia ("aussies" e "kiwis") dove viene utilizzato con larghi profitti nell'industria alimentare. Verrebbe da chiedersi perché non vengano impiantate fabbriche direttamente in loco, ma forse farebbe concorrenza a quelle australiane...
***
Da qualche tempo, pare che questo vegetale potrebbe far male alla salute. Va di moda la scritta:
"Senza olio di palma", sulle confezioni dei prodotti occidentali.
Cosa sarà, allora, di tutte quelle piantagioni, quando a chi lo fa adesso non sarà più conveniente sfruttarle?
Saranno reimpiantate quelle di riso?
Verranno risarciti i danni subiti dalle popolazioni indigene?
E' la prima cosa che salta agli occhi quando si mette piede in Papua Nuova Guinea. Anzi è la seconda, perché la prima è il sorriso dei suoi abitanti.
Sono proprio quei sorrisi a svelare che denti e labbra degli abitanti di Papua NG hanno uno strano colore rosso scuro.
In verità in un primo momento non ci avevo dato peso; la prima volta a Port Moresby, definita una delle città più pericolose del mondo, richiedeva ben altri pensieri.
Il rito della prima passeggiata a piedi rivela ben presto una sgradevole sorpresa: sui marciapiedi, nelle strade, sui muri, ovunque, inquietanti "macchie" rosse che, volendo pensare al peggio, sembrano sangue.
"Allora Port Moresby è davvero quello che ho letto: l'inferno"...
In realtà basterà molto poco per comprendere che non è sangue proveniente da aggressioni: i papuaniugini sputano in continuazione, senza alcuna remora, una poltiglia di colore rosso.
E al primo giro in taxi impararerò che non è sangue, ma ben altro.
Il tassista dal volto rude, ma dall'animo gentile, alla mia domanda in merito a quelle chiazze rosse, sorride e mi spiega che TUTTI (!?) i papuaniugini usano masticare una noce selvatica, chiamata Betel Nut, dotata, pare, di un lieve potere allucinogeno.
La prima tappa sarà Koki Market, uno dei tanti mercati della città in cui si vende, praticamente, soltanto "Betel Nut".
Cosa accade quando uno straniero entra in un mercato di Port Moresby è un'esperienza impossibile da trasmettere. Qui stranieri ne arrivano davvero molto pochi; ancor più incredibile è quel che accade se si prova a tirar fuori una fotocamera. I papuaniugini amano essere fotografati ed è impresa difficile riuscire a smettere una volta iniziato a scattare foto. In tutte le pose possibili, adorano esibire i loro soldi e le immancabili betel nut.
L'invito a provarla è continuo ma con cortesia, rifiuto fermamente: se finora sono sempre riuscito a riportare la pelle a casa, uno dei motivi è che mi sono sempre tenuto alla larga da sostanze stupefacenti "di ogni ordine e grado".
Ma masticare Betel Nut è bel altro che una droga, è uno stile di vita.
E, soprattutto, legale.
Si legge che Port Moresby di notte è rigorosamente sconsigliata agli stranieri perché buia, vuota e in preda ai "Rascals", gruppi di giovani violenti e senza scrupoli che si dedicano a reati di ogni tipo.
Ma non credo sappiano cosa sia una "stesa". Principianti...
In effetti l'atmosfera, dopo il tramonto, è tutt'altro che invitante e la prima notte, probabilmente, non sarei uscito.
Ma la dea bendata mi riconosce ancora una volta e si presenta nelle sembianze di un gruppo di giovani indigeni che stavano partecipando ad un festa nel ristorante dell'albergo che mi ospitava. Non è servito farmi ripetere due volte la proposta di fare un giro in città con loro. E cominciava così la prima delle mie notti folli in Papua Ng.
Una delle tappe, al Gordon's Police Station e i poliziotti in servizio, incuriositi dalla presenza di un bianco, mi accolgono calorosamente. Anche loro, naturalmente, masticano betel nut e ne acquisto una manciata per tutti, nel vicino mercato notturno.
In un posto di polizia mi sentivo al sicuro: la proverò anch'io! C'è una precisa procedura per "gustare" la Betel nut.
Una volta sgusciata, la noce si mastica per qualche minuto fino a che diventa poltiglia.
A quel punto si morde un bastoncino di senape impregnato in polvere di calce spenta
continuando senza sosta la masticazione quella poltiglia assume una colorazione rosso vivo che non va ingoiata, ma soltanto rigirata nella bocca.
Pare che questa operazione doni una leggera sensazione di euforia.
Terminato l'effetto della noce, quella poltiglia viene sputata dove capita.
Per quel che mi riguarda ho rinunciato molto presto, ben prima di mordere il bastoncino di senape.