Nel "Montagnoso Karabah" ci sono stato nell'ormai lontano 2003.
Un viaggio incredibilmente affascinante in una terra anche adesso poco conosciuta e, in quegli anni, completamente fuori dai circuiti turistici. Non ricordo di aver visto altri "stranieri" durante la mia permanenza.
Bologna-Vienna con Austrian airlines, il tempo per una fetta di Sacher e un giro sul ring con i tram 1&2, e volo notturno per Yerevan.
Contestualmente alla visita della capitale mi procurai il visto, validità sette giorni, per il Nagorno Karabakh. Che puntualmente non bastarono.
In Maršrutka, attraverso il passo di Sotk e il corridoio di lachin, dalle cui colline gli azeri sparavano durante la guerra (e continuavano a farlo: "Spesso sentiamo colpi quando percorriamo questo tratto"), in sette ore da Yerevan a Stepanakhert. Ad attendermi, non richiesto, una guida assieme ad un veicolo a quattro ruote motrici con l'autista; per me che amo viaggiare in modo totalmente indipendente quella scena generò fastidio, ma in realtà in poco tempo capii che si trattava di una formalità dovuta. A pagamento, certo, ma nemmeno troppo cara. Godrò di tutta la libertà desiderata e, in più, l'assistenza per visitare luoghi che, da solo, sarebbe stato impossibile raggiungere.
Immancabile la visita dei due monasteri più famosi, Amasar (dove si narra sia nato l'alfabeto armeno) e Gandzasar, raggiunti percorrendo lunghi tratti di strade non pavimentate, attraversando villaggi dove il tempo s'era fermato a molti decenni prima.
Indelebile la strana e simpatica scena "dell' uomo che parlava ai pesci": un anziano signore incontrato in una fattoria in mezzo al nulla, che a ritmo di musica lanciava cibo ai pesci di un vivaio invitandoli a saltare fuori dall'acqua, una volta a destra, una volta a sinistra.
Ma ciò che mi è rimasto davvero di quel viaggio sono le relazioni con le persone. Un popolo fiero delle proprie origini, colto, dotato di un senso dell'ospitalità fuori dal comune.
A Stepanakhert, dove alloggiavo, dopo due giorni in strada già mi riconoscevano, salutavano e invitavano nelle case. Nell'unico internet cafè della città ero solito trascorrere un paio d'ore ogni sera; dieci minuti per leggere la mia posta, il resto del tempo a chiacchierare, bere, mangiare.
Scaduta la settimana di validità del visto mi fu concesso -a titolo di "amicizia" (a pan' e puparuol', diremmo a napoli)- di restare ancora qualche giorno.
Un viaggio incredibilmente affascinante in una terra anche adesso poco conosciuta e, in quegli anni, completamente fuori dai circuiti turistici. Non ricordo di aver visto altri "stranieri" durante la mia permanenza.
Bologna-Vienna con Austrian airlines, il tempo per una fetta di Sacher e un giro sul ring con i tram 1&2, e volo notturno per Yerevan.
Contestualmente alla visita della capitale mi procurai il visto, validità sette giorni, per il Nagorno Karabakh. Che puntualmente non bastarono.
In Maršrutka, attraverso il passo di Sotk e il corridoio di lachin, dalle cui colline gli azeri sparavano durante la guerra (e continuavano a farlo: "Spesso sentiamo colpi quando percorriamo questo tratto"), in sette ore da Yerevan a Stepanakhert. Ad attendermi, non richiesto, una guida assieme ad un veicolo a quattro ruote motrici con l'autista; per me che amo viaggiare in modo totalmente indipendente quella scena generò fastidio, ma in realtà in poco tempo capii che si trattava di una formalità dovuta. A pagamento, certo, ma nemmeno troppo cara. Godrò di tutta la libertà desiderata e, in più, l'assistenza per visitare luoghi che, da solo, sarebbe stato impossibile raggiungere.
Immancabile la visita dei due monasteri più famosi, Amasar (dove si narra sia nato l'alfabeto armeno) e Gandzasar, raggiunti percorrendo lunghi tratti di strade non pavimentate, attraversando villaggi dove il tempo s'era fermato a molti decenni prima.
Indelebile la strana e simpatica scena "dell' uomo che parlava ai pesci": un anziano signore incontrato in una fattoria in mezzo al nulla, che a ritmo di musica lanciava cibo ai pesci di un vivaio invitandoli a saltare fuori dall'acqua, una volta a destra, una volta a sinistra.
Ma ciò che mi è rimasto davvero di quel viaggio sono le relazioni con le persone. Un popolo fiero delle proprie origini, colto, dotato di un senso dell'ospitalità fuori dal comune.
A Stepanakhert, dove alloggiavo, dopo due giorni in strada già mi riconoscevano, salutavano e invitavano nelle case. Nell'unico internet cafè della città ero solito trascorrere un paio d'ore ogni sera; dieci minuti per leggere la mia posta, il resto del tempo a chiacchierare, bere, mangiare.
Scaduta la settimana di validità del visto mi fu concesso -a titolo di "amicizia" (a pan' e puparuol', diremmo a napoli)- di restare ancora qualche giorno.