PESHAWAR
I miei tre giorni da Pashtun
Che non sarebbe stato come andare in gita sul lago di Lucerna lo sapevo.
Ma che mi avrebbero sottoposto a regime di coprifuoco e assegnato la scorta armata 24/24 per protezione, questo no, proprio non me lo aspettavo.
Una settimana di "meditazione" nel Sultanato dell' Oman e nel Regno del Bahrain e poi la mattina del 20 dicembre al gate 17, il più defilato, dell'aeroporto del Bahrain per imbarcarmi sul volo Gulf Air GF 786 per Peshawar. Unico straniero, ma non è la prima volta che mi capita, a bordo di quell'A320 in un' atmosfera irreale, preludio di quel che accadrà nei giorni successivi: il popolo Pashtun è uno dei più ospitali tra quelli che ho avuto la fortuna di incontrare.
Sembrava un gruppo di amici in trasferta, tutti parlavano con tutti e, certo, non sono passato inosservato e ho risposto, con piacere, ai tanti che mi ripetevano le stesse domande:
"Chi sei?" "Di dove sei?" "Sei sposato?"...
Ma, soprattutto: "Che vai a fare a Peshawar?"
"Just travelling". E non ci voleva credere nessuno.
Nel piccolo e caotico, ma nemmeno troppo, aeroporto Bacha Khan di Peshawar, la doppia fila
al controllo passaporti scorre rapida. Appena mi individuano, i due addetti al controllo si scambiano un cenno d'intesa, come per dire:
"Eccolo (il folle)!".
Ero preparato ad una lunghissima trafila, del resto avevo la "coscienza sporca": il consolato del Pakistan a Roma mi aveva concesso il visto, dopo un lungo colloquio in inglese, a patto che entrassi nel loro Paese a Islamabad.
E, invece, appurato che il passaporto nelle mie mani fosse effettivamente il mio, in pochi istanti il visto è timbrato.
Sono pakistano!
Cinque passi verso il nastro dei bagagli e due uomini in borghese -che evidentemente mi aspettavano- gentilissimi e sorridenti, mi stringono la mano:
"Intelligence, welcome to Pakistan; please, follow us...".
E mi sottopongono ad un lunghissimo interrogatorio al termine del quale si convincono -ma non del tutto- che altro non sono che un semplice cialtrone a cui piace viaggiare. E mi lasciano andare.
Ritiro il mio bagaglio (6,3kg), saluto i compagni di volo che a decine si offrono di accompagnarmi in città o mi lasciano un recapito:
"Qualsiasi cosa a disposizione".
Ma agli stranieri è consentito uscire dall'aeroporto soltanto utilizzando una macchina autorizzata, attraverso l'unico varco di accesso rigidamente controllato. E a quel varco, sulla stessa auto in cui avevo preso posto accanto all'autista, sale un uomo sul sedile posteriore. Scena già vista, è capitato più volte di offrire un passaggio ai locali; ma stavolta sarà diverso e me ne accorgerò pochi istanti dopo. Il primo tratto di strada che porta in città si snoda parallelamente al muro di cinta che protegge l'aeroporto ed è parzialmente ostruito da blocchi di cemento disposti alternativamente sulle corsie costringendo le auto a procedere a zig-zag:
"Ecco un bel video per Facebook!".
Nemmeno il tempo di estrarre la fotocamera e quell'uomo appena salito, con tono deciso, mi blocca il braccio:
"No Photo!".
E capisco che non è proprio il caso di esprimere la mia opinione. L'attimo di gelo è rotto dal tassista:
"He is policeman, he is here for your safety".
Bene.
E così cominciamo a chiacchierare amichevolmente mentre mi godo il percorso verso l'albergo, "Emaraat Hotel", metal detector e poliziotti in assetto di guerra all'ingresso.
Camera 701, ultimo piano.
Nemmeno il tempo di disfare lo zaino e sento bussare alla porta. Un uomo in divisa e con un fucile di produzione cinese mi dice che mi e' stata assegnata la scorta armata e che lui sarà la mia guardia del corpo fino alle 08,00 del giorno dopo.
Una "Candid camera" -pensavo- o, più probabilmente, un' estorsione, ma intanto meglio evitare domande, annuire e ringraziare.
"Io sono seduto qui, quando sei in camera", e indica un divano di fronte all'ascensore.
Ma in quel momento il problema era un altro: il Napoli di lì a un'ora sarebbe sceso in campo ad Atalanta e a me serviva un collegamento internet; il solito streaming in russo o arabo, ma soprattutto "uazzap" per chattare con Ivan. Una password maledetta, ma alla fine il wi-fi va una meraviglia. Molto bene.
Adesso che le esigenze primarie sono soddisfatte, posso uscire dalla stanza; ed il mio "bodyguard" era lì ad aspettarmi.
Per fortuna conosco la loro lingua:
"Aggia accatta' l'acqua e coccos a mangia'".
E mi porta in una meravigliosa pasticceria a poche decine di metri dall'albergo: dolci e salati, acqua e soft drink, datteri. Rientriamo.
Un rigore di Hamsik e la solita doppietta del cerdo traditore gonfiano la rete orobica col poliziotto che non capiva ma si è dovuto adeguare a tifare Napoli con tanto di sciarpa al collo.
Finita la partita, 20,45 ora locale, possiamo uscire.
"Too late" mi fa il "guardio".
"Troppo tardi per cosa, scusa?".
E mi dira' che per motivi di sicurezza a me non è consentito lasciare l'albergo dopo le 19,00 e fino alle 10,00 del mattino seguente...
Sono stato in Pakistan a dicembre 2015
Ma che mi avrebbero sottoposto a regime di coprifuoco e assegnato la scorta armata 24/24 per protezione, questo no, proprio non me lo aspettavo.
Una settimana di "meditazione" nel Sultanato dell' Oman e nel Regno del Bahrain e poi la mattina del 20 dicembre al gate 17, il più defilato, dell'aeroporto del Bahrain per imbarcarmi sul volo Gulf Air GF 786 per Peshawar. Unico straniero, ma non è la prima volta che mi capita, a bordo di quell'A320 in un' atmosfera irreale, preludio di quel che accadrà nei giorni successivi: il popolo Pashtun è uno dei più ospitali tra quelli che ho avuto la fortuna di incontrare.
Sembrava un gruppo di amici in trasferta, tutti parlavano con tutti e, certo, non sono passato inosservato e ho risposto, con piacere, ai tanti che mi ripetevano le stesse domande:
"Chi sei?" "Di dove sei?" "Sei sposato?"...
Ma, soprattutto: "Che vai a fare a Peshawar?"
"Just travelling". E non ci voleva credere nessuno.
Nel piccolo e caotico, ma nemmeno troppo, aeroporto Bacha Khan di Peshawar, la doppia fila
al controllo passaporti scorre rapida. Appena mi individuano, i due addetti al controllo si scambiano un cenno d'intesa, come per dire:
"Eccolo (il folle)!".
Ero preparato ad una lunghissima trafila, del resto avevo la "coscienza sporca": il consolato del Pakistan a Roma mi aveva concesso il visto, dopo un lungo colloquio in inglese, a patto che entrassi nel loro Paese a Islamabad.
E, invece, appurato che il passaporto nelle mie mani fosse effettivamente il mio, in pochi istanti il visto è timbrato.
Sono pakistano!
Cinque passi verso il nastro dei bagagli e due uomini in borghese -che evidentemente mi aspettavano- gentilissimi e sorridenti, mi stringono la mano:
"Intelligence, welcome to Pakistan; please, follow us...".
E mi sottopongono ad un lunghissimo interrogatorio al termine del quale si convincono -ma non del tutto- che altro non sono che un semplice cialtrone a cui piace viaggiare. E mi lasciano andare.
Ritiro il mio bagaglio (6,3kg), saluto i compagni di volo che a decine si offrono di accompagnarmi in città o mi lasciano un recapito:
"Qualsiasi cosa a disposizione".
Ma agli stranieri è consentito uscire dall'aeroporto soltanto utilizzando una macchina autorizzata, attraverso l'unico varco di accesso rigidamente controllato. E a quel varco, sulla stessa auto in cui avevo preso posto accanto all'autista, sale un uomo sul sedile posteriore. Scena già vista, è capitato più volte di offrire un passaggio ai locali; ma stavolta sarà diverso e me ne accorgerò pochi istanti dopo. Il primo tratto di strada che porta in città si snoda parallelamente al muro di cinta che protegge l'aeroporto ed è parzialmente ostruito da blocchi di cemento disposti alternativamente sulle corsie costringendo le auto a procedere a zig-zag:
"Ecco un bel video per Facebook!".
Nemmeno il tempo di estrarre la fotocamera e quell'uomo appena salito, con tono deciso, mi blocca il braccio:
"No Photo!".
E capisco che non è proprio il caso di esprimere la mia opinione. L'attimo di gelo è rotto dal tassista:
"He is policeman, he is here for your safety".
Bene.
E così cominciamo a chiacchierare amichevolmente mentre mi godo il percorso verso l'albergo, "Emaraat Hotel", metal detector e poliziotti in assetto di guerra all'ingresso.
Camera 701, ultimo piano.
Nemmeno il tempo di disfare lo zaino e sento bussare alla porta. Un uomo in divisa e con un fucile di produzione cinese mi dice che mi e' stata assegnata la scorta armata e che lui sarà la mia guardia del corpo fino alle 08,00 del giorno dopo.
Una "Candid camera" -pensavo- o, più probabilmente, un' estorsione, ma intanto meglio evitare domande, annuire e ringraziare.
"Io sono seduto qui, quando sei in camera", e indica un divano di fronte all'ascensore.
Ma in quel momento il problema era un altro: il Napoli di lì a un'ora sarebbe sceso in campo ad Atalanta e a me serviva un collegamento internet; il solito streaming in russo o arabo, ma soprattutto "uazzap" per chattare con Ivan. Una password maledetta, ma alla fine il wi-fi va una meraviglia. Molto bene.
Adesso che le esigenze primarie sono soddisfatte, posso uscire dalla stanza; ed il mio "bodyguard" era lì ad aspettarmi.
Per fortuna conosco la loro lingua:
"Aggia accatta' l'acqua e coccos a mangia'".
E mi porta in una meravigliosa pasticceria a poche decine di metri dall'albergo: dolci e salati, acqua e soft drink, datteri. Rientriamo.
Un rigore di Hamsik e la solita doppietta del cerdo traditore gonfiano la rete orobica col poliziotto che non capiva ma si è dovuto adeguare a tifare Napoli con tanto di sciarpa al collo.
Finita la partita, 20,45 ora locale, possiamo uscire.
"Too late" mi fa il "guardio".
"Troppo tardi per cosa, scusa?".
E mi dira' che per motivi di sicurezza a me non è consentito lasciare l'albergo dopo le 19,00 e fino alle 10,00 del mattino seguente...
Sono stato in Pakistan a dicembre 2015