Vanuatu, il paradiso della Melanesia


"Il giro del mondo in ottantacinque giorni"


Vinta la battaglia con la dogana "Kiwi", mi aspettvano ulteriori tre ore di volo alla volta della Rep di Vanuatu. una sorpresa strabiliante. Mi aspettavo certamente luoghi paesaggisticamente meravigliosi, ma noiosi: Maldive del Pacifico. Tutt'altro. La prima cosa evidente, almeno per chi non va col paraocchi, è l'incredibile, per certi versi imbarazzante, ospitalità dei melanesiani.
Vanuatu è, semplicemente, il paradiso. Bellezza del mare, dei paesaggi, della gente. L'atmosfera che si respira è estasiante. Ho impiegato una manciata di minuti dal momento in cui ho messo piede in quella terra, per prenderne coscienza.
Ho affittato un'auto preferendo una compagnia locale alle multinazionali e quel primo impatto con i vanuatesi mi aveva fatto già intuire a cosa sarei andato incontro. Un solo scambio di mail e subito la conferma, senza formalità o richiesta di carta di credito a garanzia:

"Sig Marotta troverà una Clio marrone nel parcheggio dell'aerostazione, le chiavi le potrà ritirare al Service Center di fronte al bancomat. Poi viene da noi per firmare il contratto. Siamo aperti fino alle 17,00"
Chiedo:
"E se per caso non facessi in tempo, sa un ritardo...?" "Ci vediamo la mattina successiva"
"..."

Al Service Center nella sala arrivi del piccolo aeroporto di Port Vila una busta a mio nome con una chiave anonima c'era davvero. Ma nel piccolo parcheggio nessuna Clio marrone. A vuoto il tentativo di sentire il "click" delle porte premendo il pulsante della chiave, l'ultima carta, e sarà vincente, cercare se tra le auto ci fosse quella con la targa "16646" riportata sul portachiavi.
E c'era. Una splendida Dacia Sandero blu.
Divertito, mi dirigo verso l'ufficio della "Go2rent" dove arriverò alle 16,30. Tutt'altro che preoccupata la gentile signora mi chiede di cosa avessi bisogno.
"Sono quello della Clio marrone...".
"Ah,si... senti, stiamo per chiudere, ci possiamo vedere domani mattina?"
Ecco, questo è il loro stile di vita. Rilassato e senza paranoie. E si fidano. E questa fiducia è stata, e continua ad essere, la loro rovina. Sulla loro ingenua buonafede si sono avventati, senza pietà, gli avvoltoi bianchi. Come se non bastasse, da un po' sono arrivati anche i cinesi.
Poveri loro.
Vanuatu è terra di riciclaggio. Il centro commerciale più grande –l’unico palazzo in vetro- si chiama con due nomi maschili italiani...
Enormi aree, lungo il perimetro di Éfaté -l'isola più importante dell’arcipelago di Vanuatu, dove è situata la Capitale e l'unico aeroporto internazionale- sono recintate da inquietanti muri di cemento con il cartello "Proprietà privata". I bianchi, -non solo italiani, ovvio- rubano, con l'arma della corruzione, ettari di terreno a ridosso della spiaggia e costruiscono ville o costosi resort.
I vanuatesi, purtroppo, non comprendono la portata di questo scempio e lo tollerano;
anzi, guardano quasi con ammirazione e rispetto i loro predatori. Accolgono gli stranieri -tutti, senza distinzione- con un sorriso e quel "Guuud moniiiiing" (*) cantilenato è ancora impresso nella mia mente e mi rende schiavo della nostalgia.

"Benvenuto", "Grazie per essere stato da noi", "Torna presto" le parole magiche che ascoltavo in continuazione, più volte al giorno.

Vivono in pace e con semplicità, nei loro piccoli villaggi, in comunità. Le loro case, fuori dalla Capitale, sono splendide capanne di legno e paglia, senza vetri alle finestre. Sono eccezionali pescatori, col machete non offendono, ma sanno lavorare il legno ad arte. Le palme di cocco il loro oro e sanno scalarle a mani e piedi nudi per raccogliere le noci a qualsiasi altezza.
Sono poche le attività produttive che -a casa loro- gestiscono; sostanzialmente i mercati. In quello principale di Port Vila, arrivano dai villaggi e vi restano per giorni. Di notte dormono tra i banchi della loro mercanzia e sono sempre disposti a chiacchierare, rigorosamente sorridendo, a chi si avvicina. Non chiedono soldi, nessuna pressante offerta di acquistare la loro merce.

Un capitolo a parte merita la “kava”, uno dei pilastri della cultura melanesiana. Un intruglio liquido color cemento, disgustoso al mio palato, che si ricava dalle radici di una pianta a foglia grande non molto dissimile dal tabacco. Che stordisce ed inebria. E di cui i vanuatesi sono dipendenti e, sembra che non riescano proprio a farne a meno. Ufficialmente la kava è vietata, ma di fatto no. Ci sono decine di punti, nei villaggi, dove viene prodotta durante il giorno e acquistata e/o consumata nello stesso luogo dopo il tramonto. L’accensione di una lampada rossa posta sulla strada nei pressi del produttore segnala che la kava è pronta.
In compagnia o da solo ho percorso più volte, in senso orario o inverso, la strada perimetrale di Éfaté, che è anche l'unica pavimentata, di circa 120 km. Ho dormito pochissimo durante il mio breve soggiorno vanuatese, ma non ho perso un'alba e nemmeno un tramonto. E ho ammirato più volte l'arcobaleno a 180° e nuotato in piscine naturali. Ma, soprattutto, ho conosciuto gente fantastica che ha raggiunto il mio cuore. E, mi piace sperare, che qualche loro cuore sia riuscito a raggiungerlo anche io

La cosa terribile di Vanuatu -terribile davvero- è (dover) andar via. L'ultimo sorriso è quello della ragazza del duty free shop: il suo "Plìs come again" (*) andava essere assolutamente onorato.
Tredici mesi dopo, provenendo da Fiji, atterravo di nuovo a Port Vila

(*) A Vanuatu si parla una quantità esagerata di dialetti, ma la lingua comune è il Bislama, una sorta di inglese scorretto, “broken english”